A costo di deludere una volta di più gli ottimisti e gli speranzosi, occorre precisare un paio di punti riguardo al grande patto sulla legge elettorale di cui si parla in questi giorni. Al momento non c’è un “modello tedesco” sul tavolo; c’è solo una proporzionale un pò all’italiana nobilitata con il richiamo alla stabilità teutonica. Se fosse davvero tedesco, quel modello prevederebbe dei correttivi costituzionali, a cominciare dall’istituto della “sfiducia costruttiva”, esso sì determinante per garantire governi ben saldi.
Ma c’è anche dell’altro. Per esempio il fatto che in Germania il numero dei deputati al Bundestag non è fisso come in Italia: può essere soggetto a piccole variazioni a seconda dei risultati nei collegi uninominali, in base al principio che chi vince ha ragione anche se il suo partito non raggiunge la soglia minima a livello nazionale. Stiamo parlando di uno dei sistemi più efficienti e tuttavia più complessi dell’intero occidente. Un sistema che non merita di essere ridotto ad alibi per manovre politiche di respiro non troppo ampio. In realtà l’intesa Renzi-Berlusconi di cui si narra è solo un mezzo accordo. Mezzo perchè riguarda in misura prevalente e forse esclusiva il tentativo di andare a votare il 24 settembre, lo stesso giorno della Germania. Occhieggiando a Berlino anche sulle prospettive del dopo voto. Ma le differenze sono profonde. Là è verosimile l’ipotesi di una rinnovata grande coalizione fra democristiani e socialdemocratici. Qui si intravede invece lo scenario di un Parlamento che non sarà in grado di dare una maggioranza a qualsiasi governo. Nel Paese di Angela Merkel i popolari e la Spd si alleano – quando serve – e mettono in campo una forza considerevole che non teme trappole parlamentari. Da noi, viceversa, il Pd e Forza Italia, ossia i plausibili protagonisti di un’alleanza post-voto, non raggiungono nemmeno alla lontana i numeri necessari per governare: a meno che non si decida che tutti i sondaggi , ma proprio tutti si stanno sbagliando. E allora perchè tutta questa fretta di correre al voto (con prevedibile soddisfazione dell’unico che ne trarrà vantaggio: vale a dire Beppe Grillo)?
Le spiegazioni sono varie, ma la più logica tocca l’egocentrismo dei due protagonisti del mezzo accordo. Sia renzi sia Berlusconi si considerano i maghi delle campagne elettorali. Sono convinti di ribaltare qualsiasi sondaggio negativo. Renzi sogna di avvicinarsi al 40 per cento; Berlusconi pensa che il modesto 13 per cento di cui è accreditata Forza Italia sia dovuto al fatto che lui non è ancora sceso in campo, con o senza la riabilitazione che è nelle mani della Corte di Strasburgo. Ecco la formula magica: 37+18= un rassicurante 55 per cento di seggi parlamentari. Purtroppo non ci sono evidenze che questo scenario sia plausibile. Si va quindi verso un proporzionale che premia le liste e non le coalizioni perchè in tal modo Renzi può puntare tutto su se stesso, come è sempre accaduto, e Berlusconi si libera della necessità di dover stringere patti pre-elettorali con la Lega di Salvini.
Basta questo per giustificare l’ottimismo? Non proprio. Anche se fosse introdotta davvero la soglia minima del 5 per cento e persino se passasse l’idea di collegi piccoli , con candidature raccolte in liste corte , la legge fotograferebbe un Parlamento frammentato come l’Italia del Rinascimento. A meno di non sgominare il polo di Grillo e quasi cancellarlo, nessuno può illudersi che l’Italia si trasformi d’un tratto in una simil Germania. Al contrario, i Cinque Stelle più la Lega più i Fratelli d’Italia rischiano di disegnare i contorni di un’area euro-scettica che probabilmente non avrà i numeri per governare, ma trasmetterà al mondo un’immagine precisa di un’Italia condizionata dall’anti-Europa.
In tutto questo un ruolo determinante potrebbero averlo i partiti in grado di superare il 5 per cento. Di Giorgia Meloni si è detto e peraltro non si può escludere un’alleanza dei Fd’I con la Lega sovranista. Pisapia, Bersani e gli altri della sinistra-sinistra potrebbero tentare la battaglia del 5 per cento e forse anche del 6. In ogni caso, la corsa al voto, se davvero avrà luogo, ha ottime probabilità di trasformare l’Italia in una seconda Spagna, destinata cioè a tornare presto alle urne una seconda e magari una terza volta . Ma aspettiamo le scelte di Mattarella , il protagonista dietro le quinte. Votare il 24 settembre vuol dire sciogliere le Camere alla fine di luglio. Vuol dire soprattutto rinunciare alla legge finanziaria, consegnando la patata bollente a un Parlamento prossimo venturo che potrebbe essere il regno del disordine. E’ un aspetto che nessuno può permettersi di trascurare.
Stefano Folli
(da Repubblica, 25/05/2017)